Nelle biografie di Primo Levi manca un capitolo, il capitolo dello pseudonimo. Era l’estate del 1966 e Levi, dopo i successi di Se questo è un uomo e La tregua, si trovò all’improvviso di fronte alla necessità di inventarsi un nome fasullo per poter pubblicare il suo terzo libro, giudicato troppo leggero. Glielo chiedeva il suo editore. Alla fine Levi accettò e scelse di firmare Storie naturali con il nome che campeggiava sull’insegna di un elettrauto di corso Giulio Cesare, a Torino.
In Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila Carlo Zanda racconta questo capitolo mancante, restituendo il giusto rilievo a uno snodo esistenziale cruciale, e non soltanto per ciò che comporta la rinuncia alla propria identità per qualsiasi uomo. Vediamo allora Levi recarsi ogni mattina al lavoro di chimico, rintanarsi la notte nello studio per evadere dal tran tran quotidiano, muoversi come un marziano in un mondo, l’editoria, che lo considera un intruso.
In questa vicenda convergono alcuni dei motivi più significativi della biografia umana e letteraria dell’autore de I sommersi e i salvati: il bisogno di non restare chiuso nel ruolo di testimone della Shoah; il conseguente progetto coltivato con tenacia di diventare uno scrittore vero, riconosciuto come tale, capace di inventare storie e personaggi; infine, l’applicazione della dottrina appresa ad Auschwitz, che diventerà la sua regola di vita da individuo libero, per cui «il primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga».
Sullo sfondo, l’ombra dei ripetuti rifiuti (affettivi, razziali, sentimentali…) subìti sin da ragazzo da chi del nome era stato privato ad Auschwitz, come indelebilmente testimoniava il numero tatuato sull’avambraccio sinistro.
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