Che fine ha fatto l’infanzia al tempo del coronavirus?
Un’inchiesta su una situazione tossica, che ha riportato i minori a quel ruolo di “piccoli adulti” che si pensava scomparso con l’avvento della pedagogia del Novecento.
Il tempo del coronavirus, in Italia, sarà rielaborato e raccontato negli anni a venire. Si valuteranno le responsabilità e gli errori, il dolore e il lutto, le conseguenze sull’economia e sui rapporti generazionali. Eppure, molto presto, si capirà che chi è scomparso dall’orizzonte – ovvero i 10 milioni di bambini e ragazzi tra 0 e 15 anni – dovrà pagarne il prezzo più alto.
I più piccoli sono stati un “effetto collaterale” dell’epidemia di Covid-19: primi a subire gli effetti del lockdown (le porte delle aule scolastiche si sono chiuse subito), ultimi a rientrare nella normalità di studio e di svago con i coetanei. A loro è stato chiesto uno sforzo enorme: abbandonare abitudini, rituali, necessità e sicurezze per “non contagiare gli altri”. Uno sforzo che hanno portato avanti senza lamentarsi e subendone, silenziosamente, i contraccolpi.
Questa totale noncuranza non è iniziata con la pandemia. Per l’autrice, è dagli anni ‘90 che la nostra società ha spostato il cono di luce dai diritti dei bambini al loro ruolo di consumatori, cancellandone i bisogni reali e dando spazio solo a quelli indotti: dal merchandising, dalle proiezioni dei genitori, dalle aspettative di una civiltà invecchiata e di una scuola in stato di costante autodifesa. Quando tutto sarà finito, noi adulti saremo pronti a restituire loro qualcosa?
Prefazione di Chiara Saraceno
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