"Un componimento misto di critica e d’invenzione": così
Alessandro Zaccuri
propone di definire
Il signor figlio
(Mondadori), un romanzo che si basa su una robusta documentazione ma
che poi, strada facendo, si è trasformato in racconto. Una storia di
padri e di figli, uniti dalla scrittura e divisi dall’arte. Figli più
celebri dei padri, andrà aggiunto. C’è Giacomo Leopardi che ottiene più
fama del conte Monaldo, c’è Rudyard Kipling che mette in ombra il padre
John Lockwood e, infine, c’è il compositore Olivier Messiaen che si
affranca dall’eredità della madre, la poetessa Cécile Sauvage.
Quanto è durata la fase di ricerca per questo libro?
Ho raccolto materiale sui "figli d'arte" per molto tempo, sempre nella
prospettiva di un saggio o, meglio, per una raccolta di saggi. Così,
quando l'idea del romanzo ha preso corpo, sapevo già come muovermi e
che cosa cercare. Mi ha emozionato rendermi conto di come, una volta
scoperto il fuoco prospettico, molti dettagli combaciassero fra di loro
con estrema naturalezza.
Per esempio?
Nel libro ci si riferisce spesso all'Imitazione di Cristo, uno dei
libri letti da Cécile Sauvage durante la malattia che la porta alla
morte. Riprendendolo in mano, mi ha colpito il capitolo in cui l'autore
invita a temere la sapienza umana. Dopo un po' mi sono reso conto che
si tratta dello stesso brano la cui lettura è raccomandata da Monaldo
al figlio in una lettera; più avanti ancora ho scoperto che Giacomo, da
ragazzo, sognava di scrivere un romanzo ispirato alle illustrazioni
dell'Imitazione. Sarà una coincidenza, d'accordo, ma a me è sembrato un
buon segno.
Il vero protagonista del libro è
un Leopardi che vive a Londra sotto falso nome, dopo aver finto di
essere morto a Napoli. Un Giacomo spavaldo, ironico, visionario, molto
diverso dal poeta malinconico che si studia a scuola.
Forse è semplicemente l’uomo che ha sempre cercato di essere, senza
riuscirci. Del resto, se si osserva in controluce la fatica titanica
che Giacomo affronta per conquistare la sua erudizione prodigiosa, si
scopre uno spirito d'avventura non soltanto intellettuale, ma anche
corporeo, una body art istintiva e molto, molto vicina alla nostra
sensibilità.
La storia dei Kipling non è meno appassionante. In che modo è nata l’idea di metterla in relazione con quella dei Leopardi?
Che Giacomo sia sopravvissuto e si sia trasferito a Londra è
un'invenzione. Ma se fosse successo, è molto probabile che si sarebbe
trovato nella necessità di appoggiarsi ai circoli italiani della
capitale, per esempio quello dei Rossetti, al quale Lockwood Kipling fu
in effetti legato (Dante Gabriel Rossetti fu il suo testimone di
nozze). L'idea è venuta da qui ed è stata rafforzata dalla biografia di
Lockwood Kipling, che durante il soggiorno in India si trasforma in un
orientalista molto competente, ma sembra perdere ogni contatto con la
fede cristiana in cui era stato cresciuto. Se mai avesse avuto Leopardi
come maestro, è probabile che non sarebbe finita diversamente.
Che ruolo gioca nel romanzo il
“Quatuor pour la fin du temps”, il capolavoro assoluto di Messiaen? E
come la storia del compositore si intreccia a quella dei Kipling?
Il padre di Messiaen, Pierre, è stato davvero un anglista di vaglia,
traduttore di Shakespeare, studioso di Milton. Insomma, se gli fosse
capitato tra le mani un manoscritto firmato da un Kipling avrebbe
saputo come comportarsi. Ma il legame più profondo tra Pierre Messiaen
e la famiglia Kipling è dato dalla comune esperienza della Prima guerra
mondiale. Olivier Messiaen, invece, compone il Quatuor nel pieno della
Seconda guerra mondiale, in circostanze ostili che però spogliano lo
spartito di ogni sovrastruttura e scolpiscono uno dei capolavori
spirituali del Novecento, non soltanto in musica. È una partitura che
assume su di sé la constatazione della fine, senza però arrendersi
all'avanzata del nulla: i temi si avvicinano a quelli della Ginestra,
ma l'atteggiamento è completamente diverso, direi addirittura più
realistico, nel senso di un rapporto con la realtà che non si arresta
alle manifestazioni esteriori della realtà stessa. E poi non
dimentichiamo che Messiaen era debole di vista, come Leopardi, come
Kipling e suo figlio John... Una limitazione dello sguardo che si
capovolge, appunto, in profondità visionaria.
le recensioni
Fulvio Panzeri su “Avvenire”
(20 gennaio 2007)
Giuseppe Genna su “Carmilla”
(30 gennaio 2007)
Roberto Carnero su "Letture"
(febbraio 2007)
Lorenzo Mondo su "Tuttolibri_LA STAMPA"
(febbraio 2007)
Paolo Petroni, Ansa (febbraio 1997)
Goffredo Fofi, Internazionale (febbraio 2007)
Francesco Ottaviani, il Giornale (febbraio 2007)
l'intervista a wuz
di seguito il Corriere della Sera, 4 marzo 2007
«Meglio è tacere una Storia, che narrarla ingombrata di fole». Il
precetto del conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, vorrebbe essere
il sigillo su un vaso di Pandora che ha le sembianze di uno scatolone
pieno di libri trovato in soffitta. Vorrebbe essere la parola «fine»
che chiude per sempre una faccenda di eredità che non riguarda, però,
titoli o monete piuttosto gloria e sapere. Ma ormai è tardi, tutto è
gia accaduto («accade ancora e accadrà»). Il romanzo è compiuto e
questa è solo la frase che chiude il volume, non la storia bensì i
ringraziamenti dell' autore. Del resto il titolo - Il signor figlio -
parla chiaro: in questa storia che racconta di figli e di padri (e di
figli divenuti a loro volta padri) sono i primi a lasciare il segno; ai
secondi tocca di provare a mettere insieme i pezzi, cercare brandelli
di verità tra le righe di missive scritte ad arte o tra i fili d' erba
di uno sterminato campo di battaglia. L' autore, Alessandro Zaccuri
giornalista di «Avvenire» e conduttore televisivo, scrive da figlio;
incrocia fatti storici e finzione insinuandosi abilmente nelle pieghe
dei documenti e costruendo una trama solida e avvincente sull' infido
terreno della verosimiglianza. La vicenda parte da un assunto falso,
una fola, annunciato sulla copertina del libro: «Leopardi non è morto.
Vive a Londra. È il conte Rossi». È il 14 giugno 1837, a Napoli
imperversa il colera, Leopardi è molto malato ma gli mancano le forze
per abbandonare le umane spoglie. Così sul letto di morte resta solo la
sua identità mentre quel corpo maledetto, continua a respirare altrove.
Pochi giorni dopo Leopardi è a Londra dove, da esule, consuma questo
supplemento di vita portando avanti un progetto folle e ambizioso: un'
opera che sia «macchina e pensiero nello stesso tempo, ingranaggio e
intuizione», una liturgia laica - «ignota al mondo e proprio per questo
necessaria» - di cui lui sarà l' unico officiante. La struttura
narrativa del romanzo è complessa, ma si dimostra salda e senza
cedimenti, grazie in particolare a una prosa armoniosa, duttile, quasi
elastica che segue ovunque l' autore, si affaccia sui miti dell'
antichità e si cala nelle viscere della madre terra. E va anche oltre
perché è questa scrittura «fertile» - forse più che l' effettiva
esigenza della trama - a generare dalla storia principale, per analogia
e per assonanza, altre storie di altri figli (lo scrittore Rudyard
Kipling, il compositore Olivier Messiaen) e dei loro
padri.
Colombo Severino
Liberazione
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Casa Leopardi
Centro nazionale di studi leopardiani
Un’edizione virtuale dello “Zibaldone”
The Kipling Society
Poesie di Cécile Sauvage
Olivier Messiaen