PAOLO DI STEFANO, unico scrittore nella cinquina "rosa" del prossimo premio Campiello, ci parla del suo ultimo romanzo, NEL CUORE CHE TI CERCA

 

La prossima edizione del premio Campiello che verrà assegnato il 30 agosto al teatro La Fenice di Venezia vede una cinquina tutta al femminile (Eliana Bouchard, Benedetta Cibrario, Chiara Gamberale, Cinzia Tani) tranne Paolo Di Stefano con il suo ultimo romanzo, Nel cuore che ti cerca (Rizzoli).

Perché sei stato attratto da una vicenda come quella austriaca di Natasha Kampusch? In fondo, la cronaca nera propone di continuo storie come questa, anche più drammatiche, magari più vicine a noi. Basta sfogliare i giornali per trovarne di ogni genere.

Non è facile dire perché uno scrittore viene affascinato da una storia piuttosto che da un’altra. C’è qualcosa che sfugge a lui stesso e che l’autore può mettere a fuoco solo a posteriori. Il fatto poi che si tratti di una vicenda vicina o lontana, poco importa. Nella storia di Natasha, la ragazza di Vienna che dopo otto anni riuscì a scappare dal suo rapitore, gli aspetti per me suggestivi erano tanti e non necessariamente si trattava di quelli messi in primo piano dalle cronache: che rapporto si stabilisce tra il carceriere e il suo carcerato? E’ logico che sul piano delle necessità primarie la ragazza dipendeva dal suo aguzzino, ma sul piano diciamo dei rapporti emotivi c’è un’ambiguità di fondo crescente. Con il passare del tempo non è detto che le relazioni di forza non possano cambiare o addirittura capovolgersi, e che in certi momenti il carnefice passi dalla parte della vittima e viceversa. In letteratura e nel cinema c’è un’ampia gamma di relazioni rovesciate o imprevedibili di questo genere. In termini di criminalogia si parla di Sindrome di Stoccolma. E’ l’elemento che le cronache mettono subito in evidenza, ma lavorando sul piano letterario, attraverso la parola, la cosa si rivela ancora più interessante e ricca.

Questo per quanto riguarda i rapporti interni, ma il libro tiene conto anche di fattori e personaggi esterni.

Mi interessava scavare dentro l’attesa. I personaggi di questa storia sono tutti personaggi in attesa di qualcosa, anche senza saperlo. E non bisogna dimenticare l’attesa dei genitori che comunque, sia pure nella disperazione di fondo, dentro di sé conservano pur sempre un barlume di speranza. Mi piaceva pensare che l’attesa della ragazzina e l’attesa del padre si parlassero a distanza. L’altra cosa che mi attraeva era capire che cosa filtra del mondo in una stanza di due metri per tre: che segnali manda la televisione e come vengono interiorizzati e elaborati da una ragazzina che trovandosi reclusa per anni percepisce, attraverso il piccolo schermo, piccoli segnali di vita. E ancora: come cambia la vita di due genitori sconvolti da un evento come questo? Poi c’è  il mondo esterno che circonda una tragedia del genere: come reagisce la gente? Fino a che punto arriva l’indifferenza o l’inconsapevolezza delle persone che hanno assistito alla scomparsa o che via via negli anni hanno incontrato qua e là la coppia, che a un certo punto ha cominciato a uscire dalla prigione e a circolare? A questi interrogativi se ne potrebbero aggiungere molti altri che spero emergano dal romanzo. La letteratura, a differenza della cronaca, è attratta da quello che Malerba ha chiamato il secondo orizzonte: elementi che appaiono marginali, periferici, non a fuoco e su cui si ostina a far luce.

A proposito di cronaca e letteratura: com’è che hai lavorato sui dati giornalistici?

Ho tenuto conto di tutti gli elementi materiali che la cronaca proponeva. Ho letto gli articoli, i servizi, le inchieste, ho visto in televisione le interviste a Natasha. Ho letto gli instanti book che sono usciti subito dopo la liberazione della ragazza. Ma quel che mi premeva non era raccontare la storia di Natasha, quanto piuttosto raccontare una storia come la sua con tutte le implicazioni che comportava. Dunque, ho preso tutti i dati di cronaca, li ho trasferiti in un altro contesto, italiano, e ho cominciato a scrivere una storia che ripercorresse una vicenda molto simile a quella ma da punti di vista molteplici e parzialmente dislocati, creando una sorta di costruzione per fasce visuali giustapposte o intrecciate. Diciamo che avevo bisogno di un fondamento sicuro da cui partire: per questo lo scheletro rimane la vicenda Kampusch, sul piano dei meccanismi fenomenologici. Il resto è pura invenzione.

La costruzione del romanzo è piuttosto singolare. Da cosa nasce questo intreccio di voci?

Io ho sempre avuto difficoltà a pensare a un romanzo che avesse un andamento lineare, con una sola voce narrante e con un solo punto di vista. Ho sempre cercato di mettere in scena diverse prospettive capaci di tener desta l’attenzione del lettore giocando sul ritmo della narrazione. “Nel cuore che ti cerca” si apre con il monologo del padre che rivive a suo modo il prima e il dopo. La sua voce sia alterna con quella della figlia, Rita, che a posteriori racconta gli anni della prigionia. Il padre parla in un modo, la figlia in un altro. Il padre ripercorre a volte distesamente, a volte per frammenti la sua vita passata, le ansie, le attese, le speranze, i viaggi alla ricerca della figlia, le incertezze, gli errori, i sensi di colpa, le fratture con la moglie, le tenerezze per la figlia. In sostanza mette in gioco la propria paternità. Si interroga sempre di più sul proprio statuto di padre. Rita parla con un linguaggio franto, un po’ schizoide a tratti, che ci porta dentro la sua prigione e nelle emozioni che ha vissuto, le paure, le lacerazioni, le sofferenze. Dice e non dice, fa capire. Mette in gioco il proprio essere stata prigioniera. E’ attraverso la sua voce che rivediamo le psicosi del suo carceriere. Poi c’è il coro grigio dei testimoni, da cui emerge l’indifferenza del mondo che comunque continua ad andare avanti per la sua strada, senza badare a niente, salvo casi eccezionali. Questi tre livelli (segnalati da diversi caratteri tipografici) si specchiano l’uno nell’altro, si interrogano di continuo e si rispondono a vicenda.

Nel carcere della ragazzina c’è una tv accesa sui quiz e sui telefilm. Mi pare che tu sia particolarmente indulgente con la televisione…

Intanto è l’unico spiraglio da cui può guardare il mondo. Per questo lo enfatizza, c’è un’adesione totale e il desiderio di conquistare quella che le appare una libertà a 360 gradi. Dal suo silenzio coatto,Rita finisce per maturare l’idea di potersi riscattare parlando, un giorno, a milioni di persone attraverso il video. Ma ci sono anche altri aspetti: attraverso i quiz impara un sacco di cose. E “Dawson’s Creek” agisce in lei come una specie di speculum, come un romanzo di formazione che oltre a formare i personaggi finisce per formare anche lei, la quale si sente parte di quel mondo immaginario.






Pubblicato il 09/02/2010
 
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