Se n’è andato. L’amato Flavio, persona prima di tutto amabile, di
quell’amore d’amicizia di cui non si può fare a meno. Di questi tempi,
specialmente. Poi, sì, anche: Flavio Baroncelli, il professore di
filosofia, così diverso dalle star filosofeggianti che sfilano ora; e
che incantava studenti e colleghi in aula, a un Convegno o al Bar di
via Balbi con sintesi fulminee di storia e intrecci del pensiero
speculativo. Non sospesi in aria o sulla nube tossica del traffico.
Calati nell’oggi, nell’ora, nelle cose e nei casi che ci circondano. Il
fatto che la lunga malattia, con gli alti e bassi, minacciasse a
intervalli da tempo, non smentisce né attenua l’improvviso dolore per
la perdita di una persona di cui immediatamente avverti il vuoto che
crea. Il vuoto dentro quella sfera dell’intelligenza coniugata con il
buon senso delle cose teoriche e pratiche, che ci sembra ancora
–sembrava a lui e a noi con lui, e senza di lui molto meno- l’ultimo
argine al dilagare dell’ignoranza e, peggio, del caos mentale. Niente
di più costruttivo che il suo allegro, entusiastico scetticismo intorno
alle menti confuse degli uomini (studenti inclusi e in prima linea,
nessuna concessione al demagogismo accademico, ma la più grande
generosità didattica). Non sto qui a elencare i suoi studi. Né a dire
delle sue molte collaborazioni ai fogli da edicola: dalla “Voce” di
Montanelli, al “Secolo XIX”. Testimoniano, sul versante scritto, di
quella che era la sua alta virtù della conversazione orale, innalzata a
metodo dialogico, speculazione in pubblico. Dove costringeva
l’interlocutore, amabilmente, in forza delle parole e non
dell’atteggiamento, a essere più intelligente, a capire i nodi delle
idee. L’insegnamento di “Filosofia morale”, di cui teneva la cattedra
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, lo declinava anche così.
Magari con l’aggiunta dell’elogio della motocicletta, di cui era
appassionato, e a causa della quale ebbe in tempi lontani un incidente
grave, in Turchia, di cui sorrideva. E di cui sorride dalle prime
pagine del libro che voglio qui ricordare:
Viaggio al termine degli Stati Uniti
(Donzelli, 2006). Nel suo ultimo libro, appunto, sfruttava il suo
viaggio nel Sud degli Stati Uniti –non per turismo o per tournée
accademica, ma per curare il terribile male-, come una scanzonata,
epperò serissima occasione per descrivere l’aspetto fisico, i volti, i
luoghi, gli elettori bianchi e neri di quell’enorme periferia americana
per cercarvi la “morale”, ovvero, come s’usa dire oggi con un termine
che denuncia quanto siamo estranei a noi stessi, l’antropologia.
Naturalmente parlava del meridione degli USA per parlare di noi
meridione d’Europa. Qualche mese fa mi chiese ragione della mia lettura
del libro. E cercai, in tutta lealtà intellettuale, di non farmi
avvolgere dal velo dell’amicizia. L’avevo letto d’un fiato. Un libro
fresco di linguaggio, apparentemente colloquiale, sempre sorvegliato e
preciso. Era il tuo stile e qui scorreva alla grande. Soprattutto
grazie all’intelligenza ironica. Riusciva a non scimmiottare nessuno.
Non Tocqueville, né Weber, né Baudrillard. Citava solo Aristotele e
Faulkner. E neppure prendeva gli USA come pretesto per una
“storia della filosofia spiegata al mio lattaio”, com’è di moda. Sapeva
descrivere la vita del profondo Sud statunitense come ci avesse sempre
abitato e, insieme, con gli occhi di un marziano. Piano piano il libro
si trasformava da “viaggio sentimentale” alla Sterne o diario intimo,
in analisi dei rapporti tra ricchi e poveri, potenti e sottomessi. Di
fronte alla grande natura dell’America, il suo credo lo dichiarava: lo
spettacolo più affascinante è pur sempre quello degli uomini. E negli
uomini, pur scetticamente –come metodo di ricerca della verità o di
discernimento delle falsità-, credeva. Che cosa resta alla fine delle
fini? Si chiedeva e ci chiedeva. L’uso pratico e morale
dell’intelligenza. L’amicizia leale.
Giorgio Bertone, Secolo XIX, 21 febbraio 2007
Vorrei poter scrivere questo pezzo che ricorda e piange Flavio
Baroncelli, come avrebbe fatto lui, magari dicendo, per prima cosa,
che, nonostante fosse un professore universitario, per giunta
ordinario, Baroncelli era un uomo molto intelligente e ironico. In un
ambiente dove c'è in genere più scienza che intelligenza e ironia non
ce n'è proprio, Baroncelli ti colpiva per la prontezza dell'una e l'
acutezza dell'altra. Si prendano il suo libro Il razzismo è una
gaffe. Eccessi e virtù del politically correct e i suoi saggi che
esaltano la tolleranza e scherzano su chi ne fa un feticcio astratto e
un oggetto "di moda" e si avrà facilmente la misura del suo stile
analitico- ironico, raro tra i filosofi, per di più "morali", come,
accademicamente, lui era da tanti anni (era titolare di Filosofia
morale nella nostra Università, dopo aver insegnato la stessa materia a
Trieste e in Calabria).
Ancor più esplicitamente parla di lui, fin dal titolo, il suo ultimo
libro, scritto quando già aveva cominciato a vedersela con coraggio e
lucidità contro la malattia che in pochi anni lo ha stroncato: Viaggio
al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne
vantano, una splendida analisi della società americana attuale, vista
da un ospedale statunitense per malati di cancro (di qui il doppio
valore del "termine" in titolo) con annesso albergo. Flavio racconta la
sua esperienza di intellettuale italiano stupito e divertito, ammirato
e perplesso di fronte al piglio militaresco- patriottico con cui i
malati americani affrontano la battaglia del tumore, cui lui prendeva
parte senza eroismi sanitaristici e senza illusioni né consolazioni.
Baroncelli raccontava soprattutto dell'albergo, perché in ospedale,
osservava col suo solito umorismo, c'era pur qualche persona sana (i
medici, gli infermieri ecc.); ma l'albergo abitato solo da malati,
fanatizzati dagli psicologi a combattere contro il male come contro il
nemico della patria, sembrava davvero il luogo emblematico di una
società americana coraggiosa e puerile, impegnata e vacua, avanzata e
sempliciotta: appunto capace di votare Bush e di vantarsene, in un mix
di bene e male, di generosità e fesseria, che poi lui notava in tanti
aspetti e momenti della vita pubblica negli Stati Uniti.
Flavio era andato negli USA per curarsi. Ma neppure la caparbia
efficienza sanitaria degli americani in trincea contro il tumore ha
saputo sconfiggere (come lui aveva capito rapidamente) il suo subdolo
nemico, che se l'è portato via a soli 62 anni, lasciando nel dolore non
solo la famiglia (era originario di Savona), ma tutta la Facoltà di
Lettere e Filosofia, che perde uno dei suoi professori più impegnati
(aveva presieduto anche il Corso di Laurea in Filosofia), più
autorevoli, più amati.
Vittorio Coletti, la Repubblica, 22 febbraio 2007
Quando mi è arrivata la notizia che Flavio Baroncelli aveva chiuso
definitivamente il suo dialogo humeano con Caronte, ho sentito la sua
voce. Inconfondibile. Ti dava il senso del suo modo di fare filosofia e
del tipo di temperamento filosofico che la sua persona esemplificava.
Flavio aveva cominciato il suo lavoro di studioso con la pratica
storiografica. Il suo saggio su David Hume, l’inquietante filosofo per
bene, era stato un contributo importante alla storia delle idee e
Flavio si era iscritto prontamente al club degli studiosi del secolo
dei Lumi. Ricordo vividamente i nervosi e mitici seminari della
Fondazione Feltrinelli di fine anni Settanta da cui nacque la bella
impresa della rivista “Studi settecenteschi”. Quell’esperienza di
confronto delle idee era assolutamente coerente con un tratto
persistente del temperamento filosofico di Flavio. I seminari erano
nervosi e appassionati perché si basavano sulla convinzione che le cose
veramente importanti fossero i problemi su cui ci affannavamo, e che i
problemi fossero a loro volta molto più interessanti delle regole e dei
confini disciplinari, delle deferenze e delle buone maniere
accademiche. In due parole: esercizi di libertà e di critica e
attraversamento di confini, sfuggendo ai pomposi controllori degli
accessi ai discorsi bene ordinati. Flavio esemplificava al massimo
grado questo atteggiamento intellettuale. Non perché mirasse a ciò.
Semplicemente, perché era una persona fatta così. La buona pratica
dell’attraversamento dei confini ha indotto Flavio Baroncelli a
estendere negli anni Ottanta la sua ricerca storica alle idee politiche
e sociali a proposito delle ineguaglianze sociali e, in particolare,
della povertà come questione sociale, sullo sfondo dei processi di
insorgenza dello stato moderno. Ed è sempre la passione per i problemi,
generata da un interesse spregiudicato e intenso per le cose politiche
e civili a portare Flavio, sin dai primi anni Novanta, all’esame di
questioni difficili nell’ambito della filosofia politica contemporanea.
Dalle interpretazioni della virtù elusiva della tolleranza a quelle del
rapporto fra usi linguistici e discriminazione sociale, dai dilemmi del
multiculturalismo al confronto con l’arcipelago del liberalismo
politico. La voce di Flavio è sempre la stessa. Ha lo stesso tono
inconfondibile. Un tono che esprime uno strano impasto fra scetticismo,
ironia e impegno appassionato, che cattura il lettore di Il razzismo è
una gaffe. Eccessi e virtù del “politically correct” del 1996 e del suo
ultimo libro, uscito da pochi mesi, il suo Viaggio al termine degli
Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano. Un libro
affascinante, assolutamente da leggere, perché fa migrare
costantemente, con intelligenza, ironia e passione, la lettrice e il
lettore dal regno del sapere al regno della conversazione civile. Come
avrebbe suggerito l’eroe filosofico di Flavio Baroncelli, il suo
inquietante filosofo per bene, David Hume. Il viaggio al termine degli
Stati Uniti è un rapporto di ricerca, in cui si intrecciano la vita
filosofia e la vita non filosofica di Flavio Baroncelli. Flavio era
andato lì, per curare la sua malattia. Era una faccenda di
autotrapianto. C’era, in quel periodo di cura, un vorticoso giro di
email con le persone cui Flavio era legato. A me è accaduto di aver
capito qual è la lezione del professor Baroncelli, leggendo e
rileggendo le cose che ci scrivevamo. E ascoltando, così, la sua voce.
Ci scambiavamo ballate da Little Rock e rap filosofici. E Flavio
manteneva la promessa della sua lezione di libertà intellettuale, di
ironia dovuta alla consapevolezza dei limiti dell’attività filosofica
e, al tempo stesso, di serietà dell’impegno per le cose politiche e
civili. Per modi di convivenza almeno un po’ più decenti. Ciao adesso,
Flavio. E grazie.
Salvatore Veca, il Sole 24ore, 25 febbraio 2007
All’inizio degli anni Ottanta, nella facoltà di Lettere e filosofia
dell’Università di Genova, la cosa più facile era passare gli esami (e
con una buona votazione). Molto più difficile, negli aristocratici
quanto labirintici palazzi ai bordi del centro storico che la
ospitavano, scoprire dove fossero le aule (nascoste tra mezzanini e
cortiletti remoti), trovare i libri indicati nei programmi (nelle
biblioteche come nelle librerie), capire cosa fosse scritto in molti di
quei libri, per non dire di quanto veniva spiegato durante le lezioni.
Tutto molto serio, a partire dai corsi intitolati Augenblick e catarsi,
al colbacco in testa, al vellutone della giacca, che dai professori
venivano trasmessi agli studenti come divisa filosofica. Tutto così
serio, che sembrava più che uno scherzo sentire in un’aula interamente
affrescata (e interamente délabrè) un professore di Filosofia morale
parlare di Pufendorf. All’epoca, va detto, i cartoni con gli omini in
blu spopolavano e quel pensatore non sempre citato nei manuali del
liceo (si chiamava Samuel, tedesco e nel Seicento aveva contribuito a
divulgare il pensiero di Thomas Hobbes) poteva essere il frutto di una
fantasiosa invenzione. Era vero, ovviamente, come vera era quella
maglietta a strisce orizzontali, un po’ da rugby, che rendeva quel
professore diverso dai colleghi.
Era così Flavio Baroncelli, un pezzo unico, dall’intelligenza
fulminante – era facile restare affascinati dalla capacità di sintesi
quando dopo lezioni e lezioni su Robert Nozick, teorico del liberalismo
estremo, diceva "per capirlo però è meglio che vediate i film di John
Wayne, spiegano tutto" – attento al mondo e a quanto succedeva facendo
sempre rimare malinconia con ironia.
Oltre la Chiesa cattolica, quella marxista e quella esistenzialista
spingeva ad allungare lo sguardo oltre Oceano e oltre il territorio del
pensiero in senso stretto. "La filosofia? È un genere letterario",
spiegava con grave disagio di docenti/studenti in colbacco e vellutone:
"Non è serio, non è serio", commentavano a bassa voce, scuotendo la
forfora.
Da giovane studioso si era dedicato a David Hume, che lo aveva spinto
al dubbio, alla diffidenza per la metafisica e, soprattutto, alla
curiosità per la natura umana. Gli piaceva conoscere le persone e
metterle in relazione tra loro. Da un terribile incidente
motociclistico in Turchia, lui e la moglie, oltre a molte ammaccature,
avevano portato a casa un figlio. Poco più che quarantenni si erano
trovati di colpo genitori di un ventenne con cui era scoppiata
un’intesa travolgente (nessun miracolo, di fronte a un termine così da
parte di un allievo il professor Baroncelli avrebbe riso di gusto).
Ridere gli piaceva, anche di sé: sempre a causa di quell’incidente si
era ritrovato a fare molta rieducazione alla fine della quale il medico
che lo aveva seguito si era sentito in dovere di dirgli che forse, con
le conseguenze che portava, avrebbe potuto farsi rilasciare un
certificato di invalidità per concorrere ai posti "in quota", magari
come bidello. Flavio aveva ringraziato dicendo che era già dipendente
statale, trattenendosi dal ridere, come non aveva fatto in seguito
raccontandolo. E così era capitato che un’amica narratrice, scrivendo
di una storia di normale squallore in una scuola, salvasse solo
l’arguto e protettivo bidello Flavio Baroni.
Poteva capitare che parlando con lui si partisse da serissimi
ragionamenti su impressioni e idee, dalla religione come paura per
passare ai videogame finendo con i viaggi in motocicletta. Con
l’impressione che non ti e non si prendesse mai troppo sul serio. Si
rideva con Flavio e non ci si annoiava mai. In questo senso era un
perfetto collaboratore di giornali – oltre a Diario, tra gli altri La
Voce, l’Unità e Il Secolo XIX – per la capacità di scendere in
profondità senza far mai sbadigliare. Sapeva scrivere affrontando con
competenza, e battute fulminanti, temi paludati: "Chomsky politico ha
il vantaggio dell’orologio fermo: ogni tanto gli capita di segnare
l’ora giusta", scrisse nel primo articolo per noi nel 1998.
All’epoca, già da qualche anno e ben prima che deflagrassero sulla
scena politica mondiale, studiava i neocon, avvertendone il pericolo e
la capacità seduttiva. L’America, che aveva scoperto da ragazzo
leggendo John Steinbeck, l’America libertaria e l’America che si
ripensava, lo affascinava nelle sue contraddizioni come nei suoi
chiaroscuri. Nascono così, a cavallo di alcuni viaggi prima come
professore all’Università di Madison e poi per curare il male che lo ha
lentamente consumato negli ultimi anni, due libri, pubblicati dalla
casa editrice Donzelli, i cui titoli sono di per sé ragionamenti:
Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del "politically correct"
e
Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano
.
Se c’era un cosa da cui il professor Baroncelli invitava a tenersi
lontani era la banalità. Non c’era niente di peggio che presentarsi con
un capitolo della tesi e sentirsi dire: "Sì, ben scritto, e ci
mancherebbe, lei ha fatto di sicuro un buon liceo, però... è un po’
banale". Voleva dire che era meglio tornarsene a casa. Magari mentre
lui, senza cattiveria, ma con ironia, sottolineava: "Perché non si
sforza di ragionare un po’ di più?". Sarà fatto, professore.
Pietro Cheli, Diario, n.8/2007